Sei minuti all'alba
Giuseppe era nato a Milano e li’ viveva dalle
parti di Viale Monza, in una vecchia casa vicino alla Ca’ de Sass.
La madre era la classica casalinga milanese:
spiccia, volitiva e giusta compagna per un uomo con degli ideali. Il padre,
socialista vero e puro, tutte le mattine
prendeva il tram per andare a lavorare
come operaio specializzato alla Breda di Sesto.
Milano,
la sua Milano, era diventata
irriconoscibile, cattiva: le strade
erano deserte, la gente si guardava con
sospetto, la nebbia nascondeva neri
figuri che si aggiravano in squadracce con la speranza di trovare qualche
poveretto da riempire di botte e olio di
ricino.
Il padre ne
aveva , purtroppo, già avuto la sua
bella dose perché durante il corteo per
il funerale di un gerarca , in Corso Vittorio Emanuele, non si era tolto il cappello né aveva fatto
il saluto fascista. La madre a casa lo aveva curato brontolando: –Varda che roba! L’è semper insci’: lu el gà de fa l’eroe e po… eccola!- (Guarda
che cose! E’ sempre cosi’: lui deve fare l’eroe e poi…ecco qua!)
Intanto
Giuseppe, seduto immobile vicino alla radio, ascoltava l’annuncio
dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania.
Giuseppe
aveva vent’anni e non capiva bene perché
mai si dovesse andare in guerra ad ammazzare altri giovani che come lui
volevano vivere. La sera, dopo il
lavoro, (era apprendista meccanico dal Mario, in via D’Apulia) ne aveva parlato con la sua
fidanzata Rosetta che faceva la
piscinina (letteralmente piccolina intesa come apprendista giovane) nella sartoria della Biki, roba di lusso, per
le sciure (signore) del centro. -Speremm che te manden minga anca ti a fa la
guerra- (Speriamo che non mandino anche
te in guerra) aveva balbettato piangendo la ragazza.
Giuseppe
era andato in guerra.
Fante al
servizio della Patria. Fam fum e frecc (fame fumo e freddo) ecco tutto quello che aveva trovato.
Piu’ la
paura e la morte, tanta morte.
Poi era arrivato l’8 settembre: -Tutti a casa,
la guerra è finita, tutti a casa!- Ed allora via attraverso i campi, i paesi, le città. Via
verso el so Milan (la sua Milano). Non
ci era mai arrivato perché non era vero, non era ancora finita e lui era
divenuto a sua insaputa un disertore.
Nemmeno sapeva bene il significato di
quella parola li’, ma aveva capito che l’avrebbero messo in galera e condannato
magari a morte, come gli avevano spiegato i tre incontrati sui monti sopra
Lecco.
Si era, con tutta la sua disperazione e
solitudine, unito a loro che l’avevano portato su, verso la Grigna. Bunker
abbandonati dai “crucchi” come casa, quattro stracci, un
materasso abitato da una varietà
infinita di insetti, altri giovani magri
e sporchi e fam fum e frecc anche li’.
Non era cambiato niente. Adesso poi la sua confusione era totale: alleati contro
alleati, soldati contro soldati, soldati contro civili e pover crist contra
pover crist (poveracci contro poveracci), ma ormai aveva imparato ad adeguarsi,
Giuseppe.
Mitra a tracolla calzettoni di lana e sciarpa contro un freddo
che non mollava mai, pattugliava le montagne in cerca di tedeschi e camicie nere. Fortunatamente per
lui non aveva mai incontrato nessuno.
Sfortunatamente un giorno trovarono lui. Si erano svegliati
alla luce delle pile puntate in faccia, presi a calci e pugni, trascinati su un
camion scortato da altri tre e portati a Milano nella sede dell’OVRA in via
Fiamma.
Non era cosi’ che voleva tornare a Milano.
Era
un ragazzo, Giuseppe e voleva stare con i suoi genitori, ascoltare il papa’ che
parlava di lotte operaie, sentire la
carezza della mamma sui capelli ispidi, il suo profumo di pane e sapone di
Marsiglia, voleva ancora fare l’amore con
la sua Rosetta, non capiva il
perché di tutto quello che gli stava
capitando.
Legato ad una sedia, lo avevano
insultato, picchiato e seviziato
fino a fargli perdere diverse volte i sensi. Ma lui non aveva niente da dire,
da raccontare: lui non sapeva niente perché era l’ultima ruota di un
ingranaggio sconosciuto e poi anche se el
saveva un quei coss lu a quei li’
el g’avria di’ propri un bel nagott! (se avesse saputo qualche cosa lui a quelli
li’ non avrebbe detto proprio un bel niente)
Buttato sul pavimento freddo di una cella a
San Vittore si era messo a piangere Giuseppe: lacrime che tracciavano righe irregolari tra il
sangue secco e si depositavano sui tagli aperti, lavandoli.
Piangeva per il dolore fisico, di disperazione, per rabbia
e per
paura. Dalle celle vicine arrivavano grida, imprecazioni, richiami ed
anche qualche risata. Voci di uomini e
ragazzi, forse anche dei suoi compagni divenuti, come lui, soltanto carne da macello.
Dopo non sapeva piu’ quanto tempo, perché li’
il tempo si era fermato, l’avevano fatto alzare, spintonato per i corridoi ed
il cortile e gettato su un mezzo militare
con altri disgraziati.
Portato alla
Sede della “Muti” in via Rovello, dopo
un processo sommario, il Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato l’aveva
condannato a morte per appartenenza a bande armate.
Aveva
pianto, Giuseppe. Per paura, per rabbia, per solitudine, per la sua breve vita
che stava per finire cosi’, per i genitori che non avrebbe piu’ rivisto e che
neanche sapevano dove fosse, per la
Rosetta, per i suoi occhi scuri,
il seno morbido, il profumo di violetta e la sua dolcezza ruvida, per gli amici
e anche per il Mario di Via d’Apulia.
Aveva pregato, lui che non l’aveva mai fatto,
con il cappellano che cercava di nascondere le lacrime e la pena per quelle
anime innocenti, aveva pregato con gli altri ragazzi del corridoio che
imprecavano tra un Pater noster ed
un’Ave Maria, aveva cercato una consolazione impossibile.
Poi era
arrivata improvvisa, l’alba. Un’alba livida, ancora buia, tragica.
L’avevano caricato con un’altra decina di
disgraziati su un camion coperto e li avevano portati al Giuriati, il campo
sportivo.
Tutti in fila, gli occhi asciutti e la
bocca chiusa, già morti dentro di paura, ma dritti fuori in un ultimo moto di dignità ed
orgoglio.
La testa girava, il cervello rombava, il
cuore scoppiava. Un ordine secco, una raffica di fucilate a violentare il
silenzio.
Era
l’alba del 10 gennaio 1945, il cielo
stava schiarendo ma Giuseppe, che aveva soltanto 22 anni, non lo avrebbe visto.
Mai
piu’.
FINE
Marisa Cappelletti