C'é stato un cantautore che, con Giorgio Gaber, ha rappresentato piu' di ogni altro la Milano tragica e comica, popolare e generosa: Enzo Jannacci.
Lo vidi ed ascoltai per la prima volta piu' di cinquanta anni fa a Palazzo Litta, in compagnia di altri due splendidi personaggi del cabaret milanese e nazionale: Cochi e Renato.
Mi colpi' profondamente quel giovanotto vestito con abito e cravatta neri e camicia bianca. Con due enormi occhiali da vista dalla montatura nera piu' che un cantautore sembrava il classico travet sfortunato in balia di eventi a lui totalmente sconosciuti. Nervoso, scattante, una voce graffiante a volte persino sgradevole, quasi un burattino umano con la chitarra all'altezza del cuore, con il cuore nelle canzoni che cantava.
Avevo i suoi dischi, conoscevo e conosco tutte le sue canzoni. Ancora e sempre attuali.
Lo rividi l'ultima volta al Policlinico, uno dei grandi ospedali milanesi, nel reparto di otorino laringoiatria nel quale mio padre era ricoverato. Medico cardiologo, camminava velocissimo per i corridoi con il camice svolazzante, cercando di non apparire il cantante che tutti conoscevano e salutavano, ma l'ottimo professore che effettivamente era.
C'é una canzone, tra le tante bellissime che ha scritto, che ogni volta mi ricorda il nonno materno ed i suoi racconti di un'epoca orribile vissuta da tutta la mia famiglia: quella del fascismo prima, quando nonno Alessandro fu picchiato, perseguitato e condannato a morte dall'allora regime fascista (si salvo' grazie ad una soffiata amica) e della guerra poi. Mio padre in Grecia con l'Aeronautica Militare, mia madre a Milano salva per miracolo dopo essere rimasta ore sepolta sotto un palazzo bombardato in Corso Buenos Aires, mio zio scappato l'8 settembre e nascosto in cantina dalla nonna che affronto' una brigata fascista che lo stava cercando.
Scritta da Enzo Jannacci e Dario Fo e poco conosciuta, mi ha ispirato tempo fa una triste storia milanese e vorrei considerarla un omaggio ad Enzo Jannacci:
Sei minuti all'alba.
Marisa Cappelletti
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