«Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita.»
(Alda Merini, La pazza della porta accanto)
Tutti quei riflettori (non sempre rispettosi, tutte quelle
luci perennemente accese su di lei da un lato hanno permesso alla sua poesia di
raggiungere migliaia di non addetti ai lavori poetici, e all’affetto del pubblico di raggiungere lei,
che di crediti ne aveva non pochi (“ho mille tramonti alle mie spalle”), dall’altro,
trasformando maldestramente in poesie e libretti ogni sua parola, hanno
inquinato il campa e accresciuto la già malcelata diffidenza degli intellettuali
nei suoi confronti: ogni animale all’incontro con una specie anche leggermente
diversa arretra di un passo, diffida.
Viviane Lamarque
Li’ sui Navigli la conoscevano tutti: usciva la mattina dal
47 di Ripa di Porta Ticinese, chiusa nei
suoi pensieri, testa bassa, quasi sempre
arrabbiata con tutto cio’ che le stava intorno, salvo poi aprirsi in un
sorriso malizioso da ragazza sfacciata se incontrava qualcuno che, sconosciuto
o no, le ispirava una momentanea simpatia.
Prendeva il suo caffè “Non mi deve niente signora, per lei
ci sarà sempre il caffè caldo” accendeva l’immancabile sigaretta mettendo in
risalto le unghie smaltate di un rosso squillante e se ne tornava su, al
secondo piano, in quel piccolo appartamento dai muri riempiti con la
sua scrittura inclinata a volte a matita a volte con il rossetto rosso , di
numeri telefonici , frasi criptiche, firme di amici e conoscenti , pensieri e
tutto cio’ che le saltava in mente nell’arco della giornata.
Raramente si ricordava di mangiare, cosi’ che negli ultimi
tempi il Comune le offriva assistenza e
pasti caldi. Anche perché le avevano chiuso il rubinetto del gas: poteva avere
idee suicide, dicevano. Pare in realtà
che fosse solamente parecchio distratta, come capita spesso agli anziani ma anche alle persone che hanno ancora tanto a cui
pensare, da dire, da comunicare.
E ne aveva ancora tante di cose da dire: poesie, aforismi,
racconti e persino canzoni.
Aveva passato tutta la vita a scrivere di lei, di
chi amava ed aveva intensamente amato, di chi l’aveva aiutata nei suoi momenti
bui , di chi le aveva voluto bene ed aveva creduto in lei, dei suoi lunghi anni
prima a Turro, poi negli ospedali di Taranto e poi ancora a Milano, al Paolo
Pini.
Disturbo bipolare diagnosticavano i medici e gli psichiatri,
mentre lei affermava “ È una ricognizione, per epifanie, deliri,
nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio - non un luogo - in
cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il
naturale inferno e il naturale numinoso dell'essere umano".
Le sue poesie sono lo specchio dei tormenti e della
leggerezza, degli amori violenti e della quiete che raramente le faceva
compagnia, delle suppliche e delle preghiere, delle invettive e dei ricordi.
Le sue poesie sono e saranno sempre lei, anche in sua
assenza lei ci sarà.
“Ho vissuto dieci anni nella giungla odorosa di salici,
ero una rosa dormiente
ferma su una panchina ad aspettare
che un soffio d’avvento sanasse le piaghe dell’anima,
coglievo l’erba come si colgono i fiori
non piangevo ma guardavo fiduciosa il cielo bianco di Affori
sperando che apparissero le stelle,
a volte guardavo un folle negli occhi
e vi trovavo scolpita l’umanità che avevo perduta,
questa era la verità dell?O:P:,
questa fu la luce della mia anima inerte
che come un ferro rovente mi trapasso’ da una parte all’altra
ma era una giusta risoluzione dei miei destini
perché da una stazione imbrattata di fango
si puo’ partire verso le vie del cielo.”
Alda Merini
Marisa Cappelletti