domenica 5 marzo 2017

Una storia qualunque

                       
                               

                                    Sei minuti all'alba

    Giuseppe era nato a Milano e li’ viveva dalle parti di Viale Monza, in una vecchia casa vicino alla Ca’ de Sass.
 La madre era la classica casalinga milanese: spiccia, volitiva e giusta compagna per un uomo con degli ideali. Il padre, socialista vero e puro,  tutte le mattine prendeva il tram per andare  a lavorare come operaio specializzato alla Breda di Sesto.

    Milano, la sua Milano,  era diventata irriconoscibile, cattiva:  le strade erano  deserte, la gente si guardava con sospetto, la nebbia nascondeva neri  figuri che si aggiravano in squadracce con la speranza di trovare qualche poveretto da riempire di botte e  olio di ricino.

Il padre ne aveva , purtroppo,  già avuto la sua bella dose  perché durante il corteo per il funerale di un gerarca , in Corso Vittorio Emanuele,  non si era tolto il cappello né aveva fatto il saluto fascista. La madre a casa lo aveva curato brontolando:  –Varda che roba! L’è semper insci’:  lu el gà de fa l’eroe e po… eccola!- (Guarda che cose! E’ sempre cosi’: lui deve fare l’eroe e poi…ecco qua!)

    Intanto Giuseppe, seduto immobile vicino alla radio, ascoltava  l’annuncio  dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania.
Giuseppe aveva vent’anni e non capiva bene  perché mai si dovesse andare in guerra ad ammazzare altri giovani che come lui volevano vivere.  La sera, dopo il lavoro, (era apprendista meccanico dal Mario, in  via D’Apulia) ne aveva parlato con la sua fidanzata Rosetta che  faceva la piscinina (letteralmente piccolina intesa come apprendista giovane)  nella sartoria della Biki, roba di lusso, per le sciure (signore) del centro. -Speremm che te manden minga anca ti a fa la guerra-  (Speriamo che non mandino anche te in guerra) aveva balbettato piangendo la ragazza.

    Giuseppe  era andato in guerra.
Fante al servizio della Patria. Fam fum e frecc (fame fumo e freddo)  ecco tutto quello che aveva trovato.
Piu’ la paura e la morte, tanta morte.

    Poi era arrivato l’8 settembre: -Tutti a casa, la guerra è finita, tutti a casa!- Ed allora via  attraverso i campi, i paesi, le città. Via verso el  so Milan (la sua Milano). Non ci era mai arrivato perché non era vero, non era ancora finita e lui era divenuto a sua insaputa un disertore. 
Nemmeno sapeva bene il significato di quella parola li’, ma aveva capito che l’avrebbero messo in galera e condannato magari a morte, come gli avevano spiegato i tre incontrati sui monti sopra Lecco.
    Si era, con tutta la sua disperazione e solitudine, unito a loro che l’avevano portato su, verso la Grigna. Bunker abbandonati  dai  “crucchi” come casa, quattro stracci, un materasso  abitato da una varietà infinita di insetti,  altri giovani magri e sporchi e fam fum e frecc  anche li’.

    Non era cambiato niente. Adesso poi  la sua confusione era totale: alleati contro alleati, soldati contro soldati, soldati contro civili e pover crist contra pover crist (poveracci contro poveracci), ma ormai aveva imparato ad adeguarsi, Giuseppe.
    Mitra a tracolla  calzettoni di lana e sciarpa contro un freddo che non mollava mai, pattugliava le montagne in cerca di  tedeschi e camicie nere. Fortunatamente per lui non aveva mai incontrato nessuno.

    Sfortunatamente  un giorno trovarono lui. Si erano svegliati alla luce delle pile puntate in faccia, presi a calci e pugni, trascinati su un camion scortato da altri tre e portati a Milano nella sede dell’OVRA in via Fiamma.
     Non era cosi’ che voleva tornare a Milano.

    Era un ragazzo, Giuseppe e voleva stare con i suoi genitori, ascoltare il papa’ che parlava di  lotte operaie, sentire la carezza della mamma sui capelli ispidi, il suo profumo di pane e sapone di Marsiglia, voleva ancora fare l’amore con  la sua  Rosetta, non capiva il perché di tutto quello  che gli stava capitando.

    Legato ad una sedia, lo avevano  insultato, picchiato e  seviziato fino a fargli perdere diverse volte i sensi. Ma lui non aveva niente da dire, da raccontare: lui non sapeva niente perché era l’ultima ruota di un ingranaggio sconosciuto e poi anche se el  saveva un quei coss lu a quei  li’ el g’avria di’ propri un bel nagott! (se avesse saputo qualche cosa lui a quelli li’ non avrebbe detto proprio un bel niente)

    Buttato sul pavimento freddo di una cella a San Vittore si era messo a piangere Giuseppe: lacrime  che tracciavano righe irregolari tra il sangue secco e si depositavano sui tagli aperti, lavandoli.
    Piangeva per il  dolore fisico, di disperazione, per rabbia e  per  paura. Dalle celle vicine arrivavano grida, imprecazioni, richiami ed anche qualche risata. Voci di uomini  e ragazzi, forse anche dei suoi compagni divenuti, come lui, soltanto carne da  macello.

    Dopo non sapeva piu’ quanto tempo, perché li’ il tempo si era fermato, l’avevano fatto alzare, spintonato per i corridoi ed il cortile e gettato su un mezzo militare  con altri  disgraziati.
Portato alla Sede della “Muti”  in via Rovello, dopo un processo sommario,  il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato  l’aveva  condannato a morte per appartenenza a bande armate.

    Aveva pianto, Giuseppe. Per paura, per rabbia, per solitudine, per la sua breve vita che stava per finire cosi’,  per i  genitori che non avrebbe piu’ rivisto e che neanche sapevano dove fosse, per la  Rosetta,  per i suoi occhi scuri, il seno morbido, il profumo di violetta e la sua dolcezza ruvida, per gli amici e anche per il Mario di Via d’Apulia.

     Aveva pregato, lui che non l’aveva mai fatto, con il cappellano che cercava di nascondere le lacrime e la pena per quelle anime innocenti, aveva pregato con gli altri ragazzi del corridoio che imprecavano tra un Pater noster  ed un’Ave Maria, aveva cercato una consolazione impossibile.

     Poi era arrivata improvvisa, l’alba. Un’alba  livida, ancora buia, tragica.
    L’avevano caricato con un’altra decina di disgraziati su un camion coperto e li avevano portati al Giuriati, il campo sportivo.
    Tutti in fila, gli occhi asciutti e la bocca chiusa, già morti dentro di paura, ma dritti fuori  in un ultimo moto di dignità ed orgoglio.
 
    La testa girava, il cervello rombava, il cuore scoppiava. Un ordine secco, una raffica di fucilate a violentare il silenzio.
      Era l’alba del 10 gennaio  1945, il cielo stava schiarendo ma Giuseppe, che aveva soltanto 22 anni, non lo avrebbe visto.
      Mai piu’. 
                                                                               
                                                                                     FINE 



Marisa Cappelletti



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