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Etienne
Avevo un cane. No, un
cane è riduttivo.
Avevo un compagno di vita, mia figlia l’aveva chiamato
Etienne.
Me l’avevano regalato alcuni parenti che vivevano in campagna e, purtroppo per loro
e per tutti gli uomini e gli animali, amavano la caccia.
-Vieni- avevano detto-
Abbiamo una bella cucciolata di setter inglesi, vieni e scegline uno!-
Mio marito scelse per me: -Ho preso il piu’ vispo dei maschietti- disse
orgoglioso porgendomi un batuffolo bianco e arancio da cui spuntavano due
lunghe orecchie, un bel tartufo (è il naso dei cani per i pochi che non sanno)
nero ed umido e due occhioni nocciola spalancati dalla paura.
Tremava. Lo presi tra le braccia come si tiene un bimbo
sperduto, gli parlai piano carezzando la piccola testa con un bozzo in cima, lo
scaldai con un mio vecchio golf.
Li’ inizio’ il nostro percorso d’amore.
Si tranquillizzo’ quasi subito e li’, purtroppo, comncio’ anche la sua turbolentissima vita da
cucciolo scatenato. Che prosegui’ con la sua vita da adulto non solo scatenato,
ma completamente anarchico.
Non dormiva se non sdraiato sul mio stomaco, calmato solo
dal battito del mio cuore, non ne voleva sapere di star fermo, salvo poi
crollare a terra di botto, tramortito dalla stanchezza, mangiava qualsiasi cosa
ritenesse degna di essere ingerita: dalla carne trita con verdure ai fiammiferi da
cucina, dall’acqua fresca della sua ciotola all’acqua e ipoclorito di sodio
usati per igienizzare i pavimenti allagati dalla sua irrefrenabile urina, dai
miei sandali nuovi ai boxer di mio marito, alle farfalle che poco piu’ tardi gli uscivano
dalla bocca spalancata svolazzando di traverso mezzo stordite.
Cresciuto e diventato autonomo, almeno nel sonno e nei
bisogni primari, non ubbidi’ mai, nemmeno per una volta soltanto, ai miei
richiami che diventavano timide imposizioni
per poi ridursi a suppliche disperate! Mi guardava con gli occhioni nocciola
che sfidavano ad andarlo a prendere, con la testa alzata ed un atteggiamento di superiorità distaccata, tipicamente
inglese. E faceva quel che gli pareva.
In vacanza era l’incubo non solo della mia famiglia ma di
tutto l’hotel: non si poteva lasciarlo
solo in camera per qualche minuto che subito iniziava ad abbaiare e saltare
sulla porta e se stava zitto era peggio perché significava che stava combinando
qualche cosa di irreparabile. Come rubare le scarpe dei vicini passando sotto i
divisori dei balconi, e come ci passava lo sapeva solo lui, per poi portarle
sul letto ed abbandonarle li’ in bella mostra dopo averle distrutte.
Quando il mare era grosso lui si tuffava felice e si faceva
dei giri interminabili al largo, sordo ai miei richiami ed indifferente alle onde.
E la sera, quando speravamo di poter stare seduti nel nostro piano bar
preferito, ci toccava smpre andarcene alla prima canzone perché a lui piaceva
da morire duettare con il cantante. Devo ammettere che non era un bel sentire.
Adulto si dedico’ alla caccia alle lucertole sul terrazzo.
Chissà per quale ragione a quell’epoca il mio grande spazio all’aperto
pullulava di quei simpatici rettili. E lui se ne stava per ore a puntarle:
zampa anteriore alzata, coda dritta, atteggiamento perfetto! In fondo era un
cane da ferma e ce l’aveva nel sangue!
In vecchiaia continuo’ a coltivare la sua personale
anarchia, ma con piu’ calma.
Poi si ammalo’. Lo curai notte e giorno, dormii sdraiata vicino a lui, lo tenni
abbracciato come lo tenevo da cucciolo. E quando venne il suo momento se ne ando’ stretto a me, accompagnato dal mio
amore e dalle mie lacrime.
Oggi, Santo Stefano, voglio ricordarlo con gli occhi
nocciola che mi guardano con dolcezza, la posa aristocratica, la lunga coda che
fende contenta l’aria, la gioia che mi ha saputo regalare in tanti anni d’amore.
Marisa Cappelletti
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