domenica 14 ottobre 2018

Il racconto della domenica

Erano estati cosi' lontane che fatico a ricordare ma, quando il cassetto dei ricordi si apre e le pagine del mio libro personale iniziano a sfogliarsi da sole, allora le immagini si affollano nitide, la nostalgia ormai dolce riaffiora, il rimpianto per chi non è piu' fisicamente con me fa sempre tanto male e quella bambina quasi persa nel tempo mi sorride e mi prende per mano portandomi con sè là dove sono stata felice.  

La famiglia Brambilla 

-La famiglia Brambilla in vacanza
Sulla vecchia balilla s’avanza…-

Cantavamo tutti e tre spensierati: la mamma, i capelli biondi al vento, seduta davanti di sbieco sulla canna, languidamente appoggiata a  papà che , occhi verdi fissi sulla strada e corpo atletico, pedalava senza sforzo e con estrema attenzione ed  infine io, piccola donnina dai  capelli ricci, scura da sembrare di un altro Paese , che ridevo e cantavo felice di stare stretta al mio bel babbo, seduta sul  cuscinetto appoggiato al portapacchi fissato dietro il sellino della bici.

Quella era la nostra Balilla.
Troppo poveri , come la maggioranza degli italiani negli anni ’50,  per avere un’automobile,   quando si  andava in vacanza  (quindici giorni a Chiavari), la bicicletta nera, tirata a lucido, veniva spedita via treno all’indirizzo della caserma dei Vigili del Fuoco, nella cui dependance c’erano gli alloggi estivi per le famiglie dei pompieri. 

Lo so, oggi puo’ sembrare assurda ed impensabile una tale sistemazione, ma allora, credetemi,  era meravigliosa, almeno per me!

Si partiva la mattina presto dalla Centrale dove si arrivava almeno un’ora prima, hai visto mai che il treno partisse in anticipo,  per un viaggio che a me pareva lunghissimo ed avventuroso con tutte quelle gallerie che portavano il buio improvviso  ed il rumore assordante del treno sulle rotaie, il vento caldo e l’odore acre di fumo e di catrame.
Mi batteva forte il cuore, chiudevo gli occhi e speravo finisse presto. 

Il chiaro in fondo al tunnel l’aria piena di sole e poi ancora buio e avanti cosi’ fino alle prime stazioni di mare: Recco, Camogli e via una dopo l’altra le stazioncine con le palme, gli oleandri, gli scorci di mare tra una casa rosa ed una verdina,  che mi facevano battere le mani dal finestrino abbassato, quel profumo pulito di sole, mare, fiori e felicità.

Poi finalmente Chiavari!
La stazione era piccola ed invasa dalle erbacce, noi si usciva e ci si riuniva davanti al cinema-teatro di Piazza Garibaldi dove i Vigili del Fuoco ci aspettavano  con il loro camion rosso brillante e ci portavano alla Caserma, alla periferia del paese.
 Era una antica villa,  nella campagna assolata vicino al fiume Entella. C’erano uno splendido giardino, il gioco delle bocce, la rimessa dell’autopompa, una costruzione relativamente nuova  per il dormitorio dei Vigili del Fuoco e quella seconda villa con le nostre camere.

Come nelle Colonie estive per bambini, si veniva divisi: le femmine con le femmine ed i maschi con i maschi, eccezion fatta naturalmente per i piu’ piccoli.
Penso che i miei genitori soffrissero molto questa separazione forzata, ma questo lo capii molti anni piu’ tardi.
I pasti venivano serviti nel refettorio comune ed ogni giorno, dalla colazione alla cena, si era tutti insieme, credo una trentina circa di persone, a mangiare, chiacchierare, ridere e scherzare, come in un banchetto  di nozze che si andava ripetendo per 15 giorni.

 La spiaggia distava penso due chilometri e la nostra “Balilla” era indispensabile.
Prima di partire alla volta del Lido di Chiavari, che a me pareva una cosa lussuosissima con  le sue cabine private in cemento su due piani, il solarium, il bar ed il ping pong da tavolo, raccoglievo in una parte del giardino adibita ad orto delle carotine piccole e tenere ed a metà strada ci fermavamo, caldo soffocante e frinire di cento cicale a tenerci compagnia, davanti ad una gabbia dove i conigli mi aspettavano ammassati contro la rete che li imprigionava.
Oggi mi sarei già rivolta da tempo alla LAV per liberarli!

Alla spiaggia, composta da sassi grandi o piccoli, ma sempre scomodissimi sassi, si stendevano gli asciugamani, si sistemavano la borsa ed i vestiti, la mamma mi abbassava il davanti del costumino di lana per farmi prendere il sole ed io inauguravo cosi’ il primo topless di tutti i tempi.

Poi papà mi faceva fare il bagno: avevo un salvagente verde ingombrante a forma di pesce, forse uno squalo,   e quando il babbo mi porto’ per la prima volta al largo (per me dove non toccavo era il largo), e tolse il tappino che teneva gonfio il pesce lasciandomi nella situazione di naufraga senza salvifici scogli, capii il significato del ghigno cattivo del malefico pesce.
 Pero’ imparai a nuotare. Allora funzionava cosi’. 

La sera, come ora si va al Pacha ad Ibiza, allora si andava da Giovannino, sotto i portici vecchi, dove si mangiavano  farinata e castagnaccio, si beveva vino bianco delle Cinque Terre e Ugo, grande amico di papà, suonava la chitarra e tutti cantavano fin oltre mezzanotte.
Oppure dal Sciur Pepin (alla milanese), osteria sgangherata sulla riva del fiume ed anche li’ giu’ vino in bicchieri di vetro spesso che ricordo ancora, come ricordo il gestore, il Pepin appunto, che con voce tenorile cantava La Spagnola tra i fischi e gli applausi della compagnia decisamente brilla.
No, io no.
Io, tra una scarica di immaginate voi che  cosa e l’altra (si’ perché a me il mare faceva quell’effetto dal giorno dell’arrivo alla mattina della partenza, ma ai miei pare non importasse piu’ di tanto, non mi si chieda come mai), dormivo. 

Non esistevano baby sitter ai tempi e credo che quegli omoni di pompieri non fossero disposti a farne le veci, cosi’ la sera dormivo in braccio a mamma e tornavo sulle spalle di papà. 

Andarono  avanti cosi’ le mie vacanze, con intermezzi tragi-comici: io che rischiai di affogare in  mezzo metro d’acqua, salvata da uno sconosciuto che mi tiro’ fuori dall’onda  sollevandomi per le bretelle del costume . La mamma era occupata a far la sirenetta e non se n’era accorta.
L’onda anomala che arrivo’ all’improvviso coprendo tutta la spiaggia fino alla massicciata del treno e ci porto’ via ogni cosa costringendoci a tornare a casa in costume da bagno fradicio ed a piedi nudi.
Il nonno, sordo, allegro e  gran macho degli anni cinquanta,  superato non si sa per quale ragione il passaggio a livello abbassato, non senti’ il fischio del treno né le grida di mamma e delle altre signore che lo stavano ammirando  e per un soffio non ne venne investito.

Insomma le solite cose,  che mi permisero di arrivare ai  quattordici anni.
Che non assomigliavano nemmeno lontanamente a quelli delle adolescenti di adesso: ero ancora una bambina coi capelli ricci, anche se ormai il costume non lo abbassavo piu’, non uscivo la sera e giocavo a palla e raccoglievo con papà  pezzi di vetro levigati dal mare sulla riva.

Ma,  e qui il ma è d’obbligo, un bel giorno capito’.
Eh si’ ci cascai anche io, io cosi’ bambina: mi innamorai perdutamente di Piero Pieri, bel pompiere toscano di stanza a Chiavari! 
Il primo a capirlo fu lui.

No, la mamma no, lei era troppo presa dal SUO pompiere.
Ma Piero, che doveva essere giovanissimo ed a me pareva un uomo, fu gentile, mi tratto’ come la sorellina minore, cerco’ in tutti i modi di non ferire i miei neonati sentimenti. Anche papà se ne accorse, non disse niente e mi lascio’ vivere in tormento ed estasi la mia prima cotta.

Ma ormai la frittata era fatta: non potevo piu’ vivere quel tipo di vacanza per genitori e bambini soltanto, ero diventata grande.

La Balilla tornata per l’ultima volta dal mare, fini’ in cantina, si riempi’ della polvere degli anni e dei ricordi, sostituita da una fiammante Vespa verde oliva su cui il babbo sfrecciava spericolatamente a 40 chilometri all’ora ed anche meno, per le vie di Milano non ancora intasate dal traffico e dai sensi unici e sul  Passo del Turchino per gioia sua e preoccupazione di mamma.

Io andai verso altre vacanze, altri mari, altri costumi da bagno, altri innamoramenti estivi, anche se papà rimase sempre, finché visse, il mio eroe.

Mia madre, sempre bella e bionda ed anche leggermente, simpaticamente svanita,   continuo’ ad occuparsi a tempo pieno del SUO pompiere.


Il tempo poi fece tutto il resto.


Marisa Cappelletti





 

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