Una notte a Milano
Mancano pochi giorni a Natale.
Un altro Natale vuoto.
Sono stanca non ho piu’ stimoli né desideri, non ho piu’
nulla da dare né voglio ricevere niente, il vuoto mi stringe il sonno mi manca.
Esco nella notte. Devo respirare, devo raccogliere i
pensieri, decidere se qui deve terminare questa inutile lotta contro fantasmi
che mi sopraffanno.
La città non dorme, le luci sfavillano annunciando allegre la Festa che verrà ma qui in questo scorcio di viale tutto è silenzio, c’è una tranquillità
strana, densa, i miei passi rimbombano, una risata lontana disturba il silenzio.
A terra una figura scura, avvolta in qualche cosa che non so
definire, fa un movimento lento, il mio cuore fa un balzo, ma l’istinto mi
spinge ad allungare una mano verso il fagotto buttato li’ contro il muro.
Si gira di scatto,
come un animale indifeso attaccato da un altro in caccia.
Due occhi scuri che
alla luce delle vetrine illuminate del centro città hanno ancora il
coraggio di brillare, un volto accartocciato dalle difficoltà, un taglio dove dovrebbero esserci le labbra,
ed una voce raschiante, senza sesso che chiede sgarbata:
-E tu che vuoi? Qui é casa mia, vattene!-
La sua casa. Sotto una galleria di gelido marmo, contro gli
scalini di un negozio che offre quell^'abbigliamento caldo che mai potrà possedere, in
balia di chiunque e di qualunque cosa possa succederle.
-Scusami, non voglio nulla, solo accertarmi che tu stia
bene, che non ti serva niente-
Mi sento stupida, inopportuna, inadeguata. Come posso
pensare che la donna sia sana, che abbia quello di cui ha bisogno, che non le
serva niente?
Lo sguardo si fa penetrante, la voce un sussurro:
-Vieni, siedi qui vicino ed ascolta, ti racconto una storia-
-Tanti anni fa c'era una donna. Sì, anche se ora può
sembrare impossibile, ero una donna!
Una famiglia con un marito e due figli. Non ricordo e non
voglio ricordare i nomi né le età perché fa male, troppo male ed io voglio solo
il vuoto.
Il marito un giorno se ne andò lasciandola in balia di tempi
duri che non seppe affrontare, di responsabilità che lei ritenne più grandi
delle sue possibilità, di giovani vite da crescere che lei fu incapace di
gestire. Debole? Sì, debole e stupida, illusa e succube di una vita passata alle
dipendenze di un re e despota, incapace di organizzarsi una nuova esistenza.
Così arrivò il bicchiere di alcool per rinfrancarsi, poi i
bicchieri si moltiplicarono regalandole l'oblio delle giornate pesanti, i
bicchieri divennero bottiglie, l'oblio diventò totale: niente più
responsabilità, niente più figli, niente più vita.
Tutto dimenticato, svanito, perduto. Fine.-
Gli occhi, come spilli infuocati, mi entrano dentro,
l'angoscia la sua, mi contagia, la disperazione diventa palpabile, la notte mi
soffoca.
Non ci sono sogni quieti qui, solo attimi vuoti.
Mi siedo sul gradino sporco del negozio e le prendo la mano.
Si tira indietro, come investita da un soffio troppo caldo
per lei, non sa più che cosa sia il contatto fisico con un altro essere umano,
non conosce altro che gli insulti.
Della vita, dei compagni di strada, di chi passa, la guarda
con disprezzo e se ne va voltandosi dall'altra parte perché la miseria umana fa
paura, può contagiare lo stupido che ci crede!
Ma non mi lascio intimorire dal rifiuto. Con estrema
gentilezza le riprendo la mano sporca e la tengo tra le mie, senza stringere,
senza dire nulla.
Mi guarda stupita ma lascia che il mio calore passi al suo
gelo e piano piano la mano si riscalda ed un sorriso storto le trasforma il
viso.
Questa mia ultima notte mi sta regalando la consapevolezza
della fortuna di essere quel che sono, di vivere come vivo, di avere quello che
ho.
Mi sta donando la gioia immensa di un sorriso di un essere
umano che più non credeva di esserlo, la certezza di avere ancora un'anima.
E ringrazio la donna che ha permesso che questo giorno così
pesante e pieno di propositi bui, finisca con queste ultime ore straordinarie e
accompagni la mia rinascita verso il chiarore che si profila in fondo alla
strada.
Prendo il cellulare dalla borsa e compongo un numero di
emergenza.
Anche per lei non deve essere finita qui.
Mi guarda impaurita, non dice più una parola.
I volontari la fanno alzare con delicatezza e lei deperita,
gelata e rattrappita com'è fatica a stare in piedi. Poi, aiutata, sale
sull'ambulanza. I suoi occhi dicono -non lasciarmi-
No, non ti lascio.
Quando starai meglio ti dovrò raccontare io una storia. La
storia di una donna disperata, che voleva rinunciare ad una vita fortunata, ma
che ti ha incontrata in una notte in cui la depressione stava spingendo forte
verso il buio.
E tu le hai aperto uno spiraglio. Tu, con il tuo dolore
l'hai salvata.
Prendo ancora il cellulare dalla borsa mentre salgo anche io
sull'ambulanza.
Compongo un numero noto.
-Sì, sto bene ma ora non posso tornare. Devo accompagnare
un'amica all'ospedale ma poi verrò a casa ed andremo insieme incontro al Natale. Sì, sto bene,
ora che ho capito sto bene.
La mia e la sua notte sfumano nell'alba. Le siedo accanto e
le prendo la mano.
No, non ti lascio.
Marisa Cappelletti
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